Gianluigi Serravalli è
nato a Ferrara, e se lo porta dentro. Degli artisti ferraresi ha la
capacità magica di filtrare l’osservazione del vissuto,
e, là dove cala la nebbia a ottundere, fa subentrare un’abitudine
di fantasia sorretta dal buon tutore della cultura.
Serravalli è artista originale e poco legato agli schemi tradizionali,
tela e tavolozza sono estranei al suo concepire la realizzazione delle
proprie opere. Si esprime con mezzi che, pur nel logico evolversi
degli strumenti, sa di bottega rinascimentale. Prepara materie e materiali,
quasi che la fase preliminare, che per altri si riduce a un semplice
fare acquisti in un negozio ben fornito, fosse per lui l’inizio
della realizzazione del dipinto. I suoi soggetti sono per lo più
manufatti: l’uomo, anche quando non si vede, la fa da padrone,
e incombe. Serravalli va perciò a caccia di muri, tetti, pannelli
d’intonaco disadorni oppure ornatissimi, illuminandoli con spicchi
di sole e schegge di luna che stravolgono il naturale avvolgere della
luce, finalizzandolo alla scoperta del costruire umano. In questi
scenari di cattedrali prepotenti, gru che languono al chiaro di luna
come Pierrot meccanici e strazianti, scatole toraciche di ponti perduti
contro sfondi squadrati e indefiniti di palazzi, c’è
l’evolversi aureo delle architetture e il distribuirsi disarmonico
e triste dei loro rifiuti. Qua e là, incongruenti eppure essenziali,
compaiono piccole figure emblematiche che hanno sapore di metafisica,
citazione e sogno, animali trasfigurati, uomini irrisolti, maschere
del gioco e dell’inganno. Ma anche donne: figurine dalle rotondità
lussureggianti, lontanissime dalle tenui masserelle neanche tanto
corporee, appena sorrette dall’ammiccare dei fili interchiappali,
che caratterizzano le spolpate bellezze dei nostri giorni. Le sue
donne compaiono portando i trofei delle sontuosità cellulitiche
che hanno fatto la storia della pittura, e che a pieno rispondono
all’ideale di bellezza, senza economia di colesterolo e intrisa
di emilianità, che l’artista sibariticamente predilige.
Ma non basta.
Là dove la vena metafisica, che nelle notti di luna piena gli
ulula fra i peli della barba, si fa più impellente, subentra
l’ironia, che fa sì che le sue “ piazze d’Italia
” si popolino non di manichini simbolici e ammoscianti, ma di
monumenti sgangherati a cavalli cotti dall’artrosi, o a pellicani
che stanno espettorandosi l’anima mezzi strozzati dalla tosse;
oppure, addirittura, di se stesso, in qualche autoritratto sbeffeggiante
di uomo capace di ridersi addosso. Il secolo appena chiuso gli ha
bucato ossa e anima, segnandolo. E’ stato il secolo che ha reso
esponenziale la nevrosi, e l’ha trasformata in ricerca, rabbia,
tormento, e, soprattutto, arte dalle neppure immaginabili frontiere.
E’ stata l’arte che ha aiutato l’uomo a galleggiare
sopra le acque crudelissime di un secolo crudele come pochi, generando
autori straordinari e complessi.
Serravalli vive il proprio spicchio di novecentismo in modo nostalgico
e insieme dinamico, come volesse dire quadro dopo quadro che il secolo
è finito, ma non la sua spinta propulsiva, e che nella nebbia
è imprudente prendere troppo sul serio se stessi e sottovalutare
quel che può esserci intorno. Non per niente, appunto, è
nato a Ferrara.
(Testo di Giovanni Chiara)
http://www.gianluigiserravalli.it/
Qui sotto riportiamo il
testo della lettera (che ci ha profondamente commosso) che Gianluigi
ci ha inviato nel maggio 2008 - e che è stata letta il giorno
della presentazione di “non iàbbu e non maravìgghia”
in Parco Jalari - manifestazione alla quale, purtroppo, non è
potuto intervenire insieme a Giovanni Chiara.
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